Gravity, un film ambientato nello Spazio (interiore)
For all its stunning exteriors, it’s really concerned with emotional interiors.
Gravity è Cinema. È un film che ti fa commuovere guardando la Terra, come quando nell’inquadratura di un quarto d’ora che apre il film, la camera passa dal macroscopico, la Terra appunto, al microscopico, un bullone che vola via.
The first shot of Gravity is very, very long and entirely sinuous. We see a slice of the Earth and then a dot that turns out to be a shuttle moving toward us, faster than we anticipate, with three figures attached—two working on the craft, one floating free. Of course it wasn’t done in real time—it’s computerized—but it’s still one (count it) shot that goes from macro (the planet) to almost micro (a dislodged bolt floating into the camera). It’s in these first pre-catastrophe minutes that the real and mind-expanding subject of Gravity manifests itself: the Higher Math.
È questo dunque il soggetto di Gravity? Lo è la fisica dell’Universo? Solo in superficie, ma in virtù di questo fatto ci si può divertire a leggere cosa ne pensa l’altrofisico più cool del mondo, Neil deGrasse Tyson, dei vari “problemi” del film:
Mysteries of #Gravity: Why Bullock, a medical Doctor, is servicing the Hubble Space Telescope.
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 6, 2013
Mysteries of #Gravity: How Hubble (350mi up) ISS (230mi up) & a Chinese Space Station are all in sight lines of one another.
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 6, 2013
Mysteries of #Gravity: When Clooney releases Bullock's tether, he drifts away. In zero-G a single tug brings them together.
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 6, 2013
Mysteries of #Gravity: Nearly all satellites orbit Earth west to east yet all satellite debris portrayed orbited east to west
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 6, 2013
Mysteries of #Gravity: Satellite communications were disrupted at 230 mi up, but communications satellites orbit 100x higher.
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 6, 2013
Ma, in ogni caso:
My Tweets hardly ever convey opinion. Mostly perspectives on the world. But if you must know, I enjoyed #Gravity very much.
— Neil deGrasse Tyson (@neiltyson) October 7, 2013
È anche vero, infatti, che Gravity è altro. È un film sulla morte, sulla sopravvivenza, sulla forza di ricominciare.
Quando a metà pellicola (quanto mai fu inappropriato questo termine) le luci in sala si sono riaccese, ero disgustato da due cose: dal fatto che dovrebbe essere illegale interrompere a metà un film del genere, e soprattutto dalle chiacchiere insulse di un gruppo di amici alle mie spalle che avevano deciso di discutere i punti deboli del film, à la Neil deGrasse Tyson ma da ignoranti, senza soffermarsi nemmeno un attimo sulla straordinaria esperienza di visione regalata da Cuarón. Mi sono girato, infatti, un attimo prima che il buio tornasse in sala, e ho urlato C’È UN BEL DOCUMENTARIO SULLO SPAZIO TRA UN QUARTO D’ORA SU RETE4 DAI SIETE ANCORA IN TEMPO. Purtroppo non l’ho fatto, ma avrei dovuto.
Tornando al "vero" soggetto del film, ecco qualche riflessione.
Gravity suggests he’s spent more time thinking about it than most, wondering what it might be like for someone only slightly luckier than poor Frank to brave the abyss and stare down odds capable of going from slim to incalculable in the blink of an eye. Gravity suggests, too, that Cuarón has wondered about what it takes to survive, not just in terms of wits and strength, but what one would need to to defy instinctive terror and ignore the seeming inevitability of death. For 90 gripping minutes, Gravity finds a way to put viewers in the skin of characters required to do just that. And though the film is an amazing technical feat on every level, it works because it foregrounds the humanity of its characters, both their spirits and the fragile bodies they inhabit.
Non è per la stereoscopia o per il fotorealismo che avevo l’ansia e mi commuovevo e mi agitavo guardando il film, ma è per il modo in cui una storia estrema di sopravvivenza è stata raccontata in modo avvolgente, ambizioso, poetico. Quando si riesce a fare questo, a raccontare una storia semplice nel modo più sofisticato e complesso (almeno tecnicamente) immaginabile, senza schiacciarla, è un piccolo passo per Cuarón ma un grande passo per il Cinema.
Mi torna in mente un’inquadratura straordinaria, emblematica di questo fatto: durante una delle sequenze più avvincenti, la camera si avvicina alla Bullock (straordinaria in questo film) fino al primo piano, anzi al primissimo piano, anzi no al dettaglio, fino a dentro al casco, per diventare infine una sua terrificante soggettiva, prima di tornare nuovamente indietro. Io pagherei un biglietto intero anche solo per assistere ad uno spettacolo del genere.
For all its stunning exteriors, it’s really concerned with emotional interiors, and it goes about exploring them with simplicity and directness, letting the actors’s faces and voices carry the burden of meaning. It’s about what happens to the psyche as well as the body in the aftermath of catastrophe.
Aggiungo solo un’altra cosa. Recentemente mi è capitato di discutere su Twitter di serie TV, soprattutto a proposito del finale di Breaking Bad. C’è chi, ironicamente, sosteneva che le serie TV sono come il Cinema ma “fatto nel modo giusto”, e che la narrazione seriale è ormai generalmente “superiore” a quella cinematografica. Io stesso ho detto più volte che la grande scrittura è ormai quella del piccolo schermo. Alfoso Cuarón, però, ci ricorda che all’interno della sala cinematografica è possibile costruire esperienze di visione che tutt’ora non possono essere riprodotte in ambito domestico.
Certe esperienze seriali hanno una profondità/complessità narrativa inarrivabile, ma è un fatto che certe esperienze cinematografiche, come questa, propongono un tipo di visione “immersiva” unica. Se una grande serie è paragonabile ad un grande romanzo, questo non significa che non si possa ancora provare immenso piacere nella lettura di una grande poesia.