Se non è perfetto fa schifo
Mi è capitato di riflettere in passato sul modo in cui un medium come Twitter alimenta la polarizzazione dei giudizi eliminando tutte le sfumature intermedie. La conseguenza tanto estrema quanto frequente è che la discussione finisca – se ha avuto modo di iniziare, si intende – con un asettico «c’è il tasto defollow». È deprimente. Anche quando non si arriva a tanto, la scarsità dei caratteri a disposizione e anche il modo in cui ci rapportiamo a questi strumenti per comunicare, rischia sempre di far sì che si finisca per dire bianco o nero, dimenticandosi della scala di grigi che giace dimenticata nel mezzo.
Mi sto accorgendo sempre più spesso che in generale c’è qualcosa che non va nei nostri metri di giudizio, e mi sono accorto che se io cerco sempre di valutare le cose in modo equilibrato (molte volte, inevitabilmente, senza riuscirci), la maggior parte delle persone si accontenta più o meno di qualunque cosa senza preoccuparsi troppo, limitandosi ad un “Mi piace” o “Non mi piace” (anche se siamo in un momento storico che sembra volerci far piacere tutto a prescindere).
Ma non è questo atteggiamento a crearmi disagio – anzi, si potrebbe dire che è assolutamente legittimo accontentarsi di tutto – bensì quello di una minoranza di esperti che pretende che ogni cosa sia stupefacente oppure una me**a, come se non potesse esistere nulla nel mezzo. E con esperti intendo esperti in qualunque cosa, dalla cucina al filmmaking. Nell’immagine qui sotto ho provato a schematizzare questi tre atteggiamenti – in ordine quello che reputo illusoriamente mio (A), quello della massa (B) e quello di una certa minoranza di esperti (C).
È chiaro che lo schema è estremamente generico, ma serve solo a dare un’idea della ricchezza di sfumature di un certo approccio rispetto alla povertà di altri. È chiaro che nel momento in cui si crea qualcosa, può avere senso nei confronti del proprio stesso prodotto adottare il terzo atteggiamento; in questo modo solamente quando si è arrivati all’iterazione finale, quella che non può essere migliorata ulteriormente in un dato momento1, si può passare alla finalizzazione.
Ora immaginate un grande chef che va in vacanza in un posto in cui non ci sono grandi ristoranti, ma solo posti modesti in cui ognuno fa del suo meglio. Cosa farà lo chef? Si lamenterà per un mese, ringhiando a destra e a sinistra che «questa gente non sa cucinare, questo piatto fa schifo…» ecc.? Credo che uno chef che non si voglia rovinare la vita (e non voglia rovinarla agli altri) saprà apprezzare il buon lavoro di un cuoco e assaporare un piatto discreto, senza chiaramente scordarsi di cosa è capace lui stesso e in cosa consista l’alta cucina. Un regista di grande calibro, vincitore di molti premi, saprà guardare film semplicemente belli e godibili anche riconoscendone i limiti. Un musicista di talento non vomiterà ogni volta che ascolterà una composizione molto buona ma non esattamente al suo livello.
Non voglio dilungarmi oltre, ma il punto è che ritengo che non esista un livello di expertise che renda legittimo il considerare qualunque cosa che non sia perfetta, un disastro totale.
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È una semplificazione ovviamente; non esiste un momento definito in cui una cosa non può più essere migliorata, ma ad un certo punto un prodotto dev’essere considerato sufficientemente buono per essere lanciato/distribuito.↩